La parola "Dottore" ha un peso. Evoca immagini di saggezza, autorità e, soprattutto, fiducia. Eppure, dietro i camici bianchi e le lauree incorniciate si cela una domanda più profonda con cui le società si confrontano da secoli: chi detiene veramente questo titolo?
Il termine "Dottore" deriva dal latino "docere", che significa "insegnare". Nell'Europa medievale, non era un titolo di medicina, ma di cultura. I doctores erano studiosi; professori di teologia, diritto e filosofia in antiche università come Bologna, Parigi e Oxford. Essere chiamati "Dottore" significava essere riconosciuti come maestri, qualcuno autorizzato a tramandare la conoscenza.
Fu solo nel tardo Medioevo, quando la medicina fu sistematizzata secondo il modello universitario, che i medici iniziarono a guadagnarsi il titolo. I chirurghi, curiosamente, arrivarono più tardi. Nell'Europa antica, i chirurghi erano artigiani, barbieri-chirurghi che imparavano tramite apprendistato piuttosto che tramite una formazione scolastica formale. Tagliavano e cucivano, ma non filosofeggiavano. Nel corso del tempo, con l'unificazione della medicina sotto la scienza, la chirurgia acquisì legittimità accademica e i medici, quei dottori eruditi, li assorbirono tra i propri ranghi.
Quindi, in origine, il medico non era colui che curava il corpo, ma colui che istruiva la mente.
Facciamo un salto in avanti fino a oggi, e il titolo di "Dottore" si è moltiplicato. Medici (MD, MBChB, MBBS), dottori in filosofia (PhD), dottori in farmacia (PharmD) e persino dottori onorari (i cui titoli rimangono discutibili e controversi) coesistono tutti sotto lo stesso tetto linguistico. Ognuno, a modo suo, porta con sé un pezzo di quell'eredità medievale: la competenza sancita dallo studio.
Ma non tutti i "dottori" sono uguali agli occhi del pubblico. Nella maggior parte delle culture, l'assunto di base è che un medico sia un medico; una persona che diagnostica, prescrive e guarisce. Questa aspettativa è sia culturale che emotiva; è radicata nella nostra dipendenza dalla competenza medica per la sopravvivenza.
Chi merita il titolo?
Ma qui sta l'ironia: non tutti i medici praticano la medicina. Alcuni lasciano la clinica per dedicarsi alla gestione, alla politica o alla consulenza. Sono forse meno "dottori" per aver abbandonato il bisturi o il ricettario? Allo stesso modo, non tutti i farmacisti si limitano ai flaconi di pillole, poiché molti contribuiscono alla politica, alla salute pubblica e alla ricerca sui farmaci.
Il titolo di "Dottore" è sia una credenziale che una prestazione. Indica competenza, certo, ma anche responsabilità sociale. Indossarlo significa ergersi a custode della conoscenza. In questo senso, la questione non è solo chi può definirsi dottore, ma chi è all'altezza di ciò che il titolo implica.
Forse il vero problema è l'inflazione semantica. Con la democratizzazione dell'istruzione nelle società, i titoli si moltiplicano. Ciò che un tempo era raro ora rischia di diventare routine. Eppure la venerazione persiste. "Dottore" porta ancora con sé l'aura della maestria. Quindi la battaglia per la sua titolarità diventa una battaglia per il significato stesso.
Il medico medievale insegnava la verità. Quello moderno cura la carne. Il farmacista, il ricercatore, l'educatore condividono tutti frammenti di quella vocazione originaria.
Forse il titolo di "Dottore" non appartiene a nessuno, appartiene all'ideale che rappresenta: la ricerca della conoscenza al servizio degli altri.
Quando il titolo si separa da quello scopo, diventa solo un suono; un'eco di un apprendimento a lungo dimenticato.
Il titolo di "Dottore" non dovrebbe essere una corona. Dovrebbe essere un voto.
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